Il diario inedito di Ada Cullino Marcori

Il diario inedito di Ada Cullino Marcori: giugno-luglio 1944

 

QUELLE ULTIME SETTIMANE DI OCCUPAZIONE FRA VICCHIO E FIRENZE

 

a cura di Roberto Marcori

 

Le pagine del diario inedito qui pubblicate sono state stese nell’estate del 1944 da Ada Cullino Marcori (che talora si cita in terza persona), nata a Trieste, dove ha trascorso i primi anni della sua vita compiendovi gli studi superiori presso l’Istituto Magistrale “Giosué Carducci” e di pianoforte, presso il locale Conservatorio di Musica “Giuseppe Tartini”, dove eseguì il suo primo saggio all’età di soli sei anni.

I protagonisti di questa testimonianza, collocabile temporalmente nei mesi di giugno-luglio 1944, sono, oltre a mia mamma Ada Cullino, mia nonna Maria Frank Cullino ed il fratello Dario Cullino. Quest’ultimo si era trasferito dalla nativa Trieste a Vicchio, nel Mugello, per dirigere una distilleria di proprietà del triestino gruppo Stock, proseguendo altresì gli studi universitari presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Firenze.

Mio nonno Michele Cullino, invece, si era dovuto trasferire a Trani, in provincia di Bari, alla direzione della Distilleria Adriatica, sempre facente parte del gruppo Stock.

A causa degli eventi bellici che avevano tagliato in due l’Italia dopo lo sbarco degli alleati a Salerno, il 9 settembre 1943, mia mamma e mia nonna non avevano avuto la possibilità di ricongiungersi con il nonno in Puglia e così, dovendo abbandonare Trieste, avevano raggiunto lo zio Dario a Vicchio.

 

* * *

Il giorno della presa di Roma (1) noi tre ci trovavamo a Firenze dove Dario era andato a dare gli esami all’Università; la notizia ci colpì molto in quanto nessuno l’attendeva così presto.

Gli animi cominciarono a scaldarsi e ci furono vari rastrellamenti per le strade con scene disgustose date dai repubblicani (2) che infierivano sui loro stessi fratelli italiani come avviene in un caffè dove dei giovani che stavano giocando a bigliardo ne presero tante che dovettero essere portati all’ospedale.

Nel pomeriggio, Dario, uscito dall’Università, passava per la Piazza Vittorio [l’attuale piazza della Repubblica, N.d.C.], quando le pallottole della mitraglia lo sfiorarono. Sarebbero bastati pochi centimetri per essere colpito in pieno. Corse immediatamente nei sotterranei di un caffè vicino e lì rimase assieme ad un mucchio di altra gente terrorizzata fino a che i rombi delle bombe e le scariche di mitraglia e di fucileria non cessarono. Erano i repubblicani che avevano sparato contro giovani che volevano sottrarsi al rastrellamento. Si ebbero morti e feriti.

Era la seconda volta che il pericolo passava così vicino a Dario.

L’altra volta fu sempre a Firenze, un giorno in cui si era recato ad un comando germanico di Porta a Prato per tentare di liberare degli operai che dovevano andare in Germania e subì un bombardamento che distrusse quasi in pieno la stessa Porta a Prato.

Ma questi non erano che fatti che dopo due o tre giorni si dimenticavano dato che la vita continuava a scorrere se non serena, per lo meno discretamente calma, se si tolgono le fughe tutte le volte che ci venivano sopra gli apparecchi per bombardare Borgo S. Lorenzo, Ronta o Dicomano, il che avveniva con notevole frequenza.

Molto tempo prima, circa alla metà di marzo, mamma e Ada presero un’enorme spavento: una notte (3) in cui erano sole, poiché Dario era andato a Trieste a presentarsi per la chiamata al lavoro con i tedeschi, scesero i ribelli (4) ad assaltare il paese di Vicchio. Dalla finestra, alle dieci di sera, videro ad un tratto bagliori e lampi, sentirono tonfi e rombi, urli e grida concitate; erano i patrioti che impossessati del paese avevano ucciso in Stazione (distante sessanta metri dalla fabbrica e come questa isolata) un milite che aveva osato ribellarsi, disarmati molti altri; avevano preso la caserma dei Carabinieri e, impossessati di tutto, portarono via scalzi i Carabinieri. Fu una notte terribile; quando finalmente pensavamo che fosse finito ci decidemmo ad uscire dal camerino in cui ci eravamo chiuse al buio per paura che venissero a chiederci degli aiuti; guardammo dalla finestra e proprio sotto a noi i partigiani stavano organizzandosi per tornare alle loro montagne. Erano circa cinquecento e di lì non ci muovemmo più fino alla mattina quando arrivarono da Firenze i rinforzi dei repubblicani. Fu peggio che mai, la sparatoria non cessò più per una settimana intera. Anche noi avemmo un colpo di mitraglia sulla facciata, proprio sotto la finestra e un colpo di moschetto passò da parte a parte la porta d’ingresso e andò a fare un bel buco nel muro di fronte. Se qualcuno si fosse trovato dietro alla porta sicuramente non se la sarebbe cavata.

I repubblicani cominciarono a fare ogni sorta di angheria nel paese: s’impadronirono delle migliori ville e vi si installarono da padroni, le altre le visitarono asportandovi letti e tutto ciò che loro stava bene: olio, farina, salami, prosciutti, biancheria; giunsero fino al punto di far levare agli uomini in piazza le scarpe di cuoio e rimandarli a casa in calze.

Noi che eravamo sole avevamo abbastanza paura.

Difatti il secondo giorno si presenta da noi un sottufficiale con un picchetto di camicie nere dicendo che avevano l’ordine di perquisire la nostra abitazione e di sequestrarci il cognac che avevamo, e molta altra roba perché avevano sentito da operai, evidentemente repubblicani, che un tempo lavoravano in fabbrica, che noi tenevamo in salvo roba di appartenenza ebraica (5). Inoltre volevano prendere i letti perché occorrevano a loro. La mamma si ribellò fieramente. Si mise alla porta e non permise a loro nemmeno di entrare. Disse che era una vera vergogna che loro italiani si comportassero in quella maniera, che si permettessero di agire in quella maniera verso due donne sole, senza difesa che già erano scappate da Trieste per sottrarsi agli antifascisti e che naturalmente si erano portate dietro un pò di roba che ora tenevano in delle casse così come era arrivata, ma quella era roba loro, nessuno poteva contestarlo ed era una grande viltà credere alle calunnie di qualcuno che ci voleva male.

In quanto al cognac poi, anche se noi ne avevamo una o due cassette, questa era una proprietà privata che loro non avevano nessun diritto di sequestrare; c’era molta gente in paese che aveva molto più cognac di noi e a loro nessuno diceva niente. In ogni modo però fino a che sequestravano olio e farina era un conto, ma del cognac l’esercito repubblicano non aveva alcun bisogno. Di letti disponibili per loro non ne avevamo nemmeno uno e quindi era perfettamente inutile che salissero.

In ogni modo però, disse la mamma, dato che lei era moglie di un capitano, non avrebbe permesso che la si perquisisse come una volgare ladra e se proprio lo volevano fare sarebbe dovuto venire almeno un capitano e poi lei avrebbe aperto. Il sottoufficiale ed i suoi uomini la guardarono allibiti e andarono a riferire la cosa al loro capitano che, presa immediatamente la macchina, venne a presentarci le sue scuse dicendo che evidentemente loro erano stati male informati.

Il giorno dopo venne a Vicchio il Console comandante e la mamma se lo fece presentare da un nostro amico, Sandro Verzani, e gli disse che non era certamente bello che le camicie nere agissero in quel modo e che cosa si doveva fare se si perdeva anche la fiducia in chi doveva mantenere l’ordine e la calma e doveva difenderci. Naturalmente tutti questi discorsi non erano che pura diplomazia perchè naturalmente per i repubblicani provavamo tutt’altro che simpatia. Ma il console ne parve scosso e chiedendo anche lui scusa alla mamma le lasciò il suo indirizzo e numero di telefono perchè in qualunque caso di bisogno si rivolgesse a lui.

Intanto però, dato che i soprusi in paese continuavano con sempre maggiore frequenza e che lo stesso capitano venne a chiederci il cognac, si aprirono alcune casse per far vedere che era roba nostra e che noi l’adoperavamo e le casse di cognac le vendemmo a Borgo altrimenti, malgrado tutte le loro scuse, ce le avrebbero prese senza pagare, come fecero ad un signore, Landini, nostro cliente.

Ma come già detto, dopo tali fatti la vita continuava abbastanza calma.

Subito dopo la presa di Roma però i tedeschi sembrarono perdere la testa.

Cominciò la ritirata e colonne interminabili di camion cominciarono a passare verso il nord mentre verso il fronte si avviavano i poderosi carri armati «Tigre» che passavano per ore consecutive con un rumore assordante e rovinarono completamente la strada. Gli apparecchi erano tutto il giorno sopra a mitragliare. Noi stavamo quasi tutto il giorno nella Sieve.

I camion che fuggivano si vedevano carichi di masserizie evidentemente rubate nelle località del fronte e che i soldati vendevano come all’asta. E cominciarono a sostare nei paesi, compreso Vicchio. Lì si cominciarono a sentire voci di soprusi e di violenze, di ruberie e ladrocini e il giorno 15 [giugno, N.d.C.] la fabbrica si riempì di camion e carri armati. Non si può nemmeno descrivere con che tono quei soldatacci ci trattavano, avevano un piglio da perfetti padroni; entrarono dentro senza chiedere permesso a prendersi tutto ciò che loro pareva e sistemandosi come se tutto fosse stato loro; Dario però s’impose abbastanza energicamente e in complesso si può dire che, tolto il tono, questi primi si comportarono abbastanza bene; ma, man mano che alcuni se ne andavano, altri arrivavano ed erano sempre peggio; sfondarono porte, rubarono tutte le lampadine, s’installarono nell’officina proibendo a noi d’entrarvi e d’asportarvi sia  pure la più piccola lima.

S’installarono in casa del Mattioli (6) dove si facevano anche da mangiare e la Rosa doveva lavare i piatti. Quando partirono gli portarono via molte cose tra cui una coperta di lana e tutte le galline di cui lasciarono le budella sulla tavola di cucina. Cominciarono a dar noia alla figlia del Mattioli e una notte mezzi ubriachi andarono in casa, li fecero alzare e si misero al loro posto.

Diverse voci di ragazze che erano state molestate si cominciarono a sentire, tra le quali quelle di una bambina vicino a Borgo S. Lorenzo che si era ribellata ad un tedesco che le voleva dar noia ed era stata da questi picchiata; era riuscita a scappare perchè lui era ubriaco e i suoi genitori la ritrovarono dopo tante ore in cima ad un monte tutta terrorizzata. Di conseguenza Ada non si fece mai vedere e non sospettarono nemmeno che nella casa ci fosse una ragazza giovane.

Il giorno 19 era venuto a farci visita Sandro Verzani. Era venuto con una bella «Topolino» nuova nuova acquistata da appena una settimana. La sera, verso le otto, stava per tornarsene a casa (l’automobile era ferma davanti alla nostra porta d’ingresso) e finiva di salutarci quando passa una macchina con a bordo due soldati tedeschi. A circa cento metri da noi si ferma e i due vengono verso di noi e si mettono a chiacchierare amichevolmente chiedendoci fuoco per le sigarette. Stiamo lì un pochino e, visto che non se ne andavano, Ada consiglia a Sandro di andarsene, altrimenti veniva troppo buio. Egli saluta tutti e monta, ma non appena la macchina è in moto uno dei due tedeschi impugna la pistola, lo fa scendere e sordo ad ogni preghiera monta su e se la porta via. Il fatto ci scosse profondamente per la sua vigliaccheria, ma non era che il principio di tutte le peripezie.

Due giorni dopo sfollammo a Romignano poichè non era più possibile rimanere a Vicchio dati i continui mitragliamenti e i molti tedeschi che l’infestavano. Il trasloco avvenne alle cinque del mattino, quando ancora era buio per paura degli apparecchi e dei tedeschi che rubavano tutto ciò che trovavano sulla loro strada. Fu un vero miracolo se si riuscì a salvare la bicicletta di Dario che fu più di quattro volte in pericolo. Eravamo tutti e tre appollaiati in cima alla roba che era accatastata su di un carro con due buoi; per coprire la distanza di sette chilometri impiegammo quasi tre ore.

A Romignano andammo a stare in una casetta di contadini assieme alla famiglia Boni che si componeva di diciannove persone e tutti dovevamo cucinare nella stessa cucina; non c’era l’acqua che bisognava andare a prendere al pozzo abbastanza distante ma qui veniva torba e per bere bisognava andarla a prendere un’ora distante. La zona poi era infestata di partigiani i quali dormivano perfino nella nostra stalla senza che noi ci si potesse ribellare e tutte le volte che si vedevano venire camion germanici si doveva stare con il cuore in mano. Si sopportavano tutti i disagi sperando almeno di stare sicuri, ma non era nemmeno questo: tutti i momenti venivano su tedeschi o per requisire automobili, o buoi, o maiali o semplicemente per rubare tutto quello che capitava sottomano.

Eravamo lassù da tre giorni quando – Dario era appena tornato dalla fabbrica dove andava tutte le mattine per tornare su la sera, facendo così più di quattordici chilometri il giorno a piedi – una sera venne un operaio a dire che un ufficiale tedesco aspettava Dario per parlargli. Fummo subito preoccupati non presagendo nulla di buono. Ed infatti si trattava di un maggiore della S.S. che era venuto a smontare la fabbrica per portare via i macchinari in Germania. Era questo maggiore l’individuo più abbietto, più crudele, freddo e col cuore di sasso che mai si sia visto nell’esercito germanico, era in una parola un fanatico di Hitler. Per farsi un’idea di che razza di uomo si trattava basti pensare che era di Berlino dove aveva lasciato i genitori, la moglie e quattro figli; noi gli chiedemmo se non stesse in pensiero dati i continui bombardamenti di Berlino e lui rispose in tutta calma che dal febbraio non aveva più notizie dei suoi ma comunque anche se fossero morti tutti…questa è la guerra.

Tanto cinismo c’impressionò. Ed egli si accinse a portare via tutto.

Fortunatamente Dario aveva fatto smontare la distilleria e tutti quei macchinari si trovavano al sicuro in casa di contadini a Pilarciano. Il maggiore coi suoi soldati s’installò subito da padrone nella fabbrica, aveva la pretesa che Dario gli trovasse degli operai e lo aiutasse a smontare i macchinari; dato che Dario non lo fece lo prese subito in grande antipatia.

In previsione del passaggio di truppe molta nostra roba e altre casse erano state nascoste e in parte murate, e quattro fusti di alcool buon gusto (7)  e denaturato erano stati sistemati sotto i vinaccioli (8); questo per sottrarre un pò di roba alla bramosia dei soldati che si fermavano lì per qualche notte. Quando arrivò il maggiore cominciammo a stare in pensiero per quella roba che ormai non si poteva più rimuovere, tanto più che quell’orribile uomo aveva detto che chi non collaborasse onestamente con loro e tentasse di sottrarre qualche cosa alla loro requisizione si macchiava di un grave reato contro la Germania e sarebbe stato immediatamente fucilato.

Siccome la situazione per Dario diventava sempre più critica, decisero con la mamma di dire al maggiore che lei era la padrona e Dario suo nipote e impiegato: con una donna per lo meno non avrebbero avuto tanto coraggio. Difatti questo trucco si mostrò di grande utilità poichè in molti frangenti in cui l’ira del tedesco pareva scatenarsi su Dario, egli poté scaricare la responsabilità sulla mamma di fronte alla quale quel mostro si doveva necessariamente calmare. Così avvenne quando i «cari» operai vicchiesi, che per cento vilissime lire al giorno si erano messi volontariamente a far da servi ai tedeschi, trovarono l’alcool e invece di tacere o di avvertire Dario, italiano come loro, lo portarono al tedesco. Questi con gli occhi bianchi per la rabbia si recò da Dario chiedendogli che cosa significasse quello. Dario disse che non aveva fatto altro che eseguire un ordine della padrona e che perciò si spiegasse con lei. La mamma interrogata disse che quella roba era stata nascosta per paura dei partigiani, in ogni modo non si trattava di macchinari quindi nulla si era sottratto alla grande Germania; il maggiore rispose che anche quello occorreva; allora la mamma gli chiese almeno un fusto dato che questa roba era in più e loro non si aspettavano d’averla e anche a noi occorreva, ma il tedesco rispose che nulla più là dentro ci apparteneva e nulla lui ci avrebbe lasciato. Era talmente odioso, freddo e vigliacco quell’uomo che è impossibile descriverlo; ci inflisse tante, innumerevoli umiliazioni.

Un’altra volta l’intervento di mamma in qualità di padrona si dimostrò salutare. Appena arrivato, il maggiore aveva chiesto se ci fossero in fabbrica stanze dove lui e i suoi ufficiali potevano dormire. Dario naturalmente rispose di no, dato che lui la notte dormiva lì e le altre stanze le teneva a nostra disposizione in caso che a Romignano fosse successo qualcosa, e lui allora si fece prestare delle materasse da Dreoni e dormiva nell’ufficio del Modi. Il giorno 3 luglio, in cui Dario compiva ventuno anni, arrivando a Romignano trova i tedeschi che stanno sfondando la porta del nostro appartamento. Prima che buttassero giù la porta Dario la aperse con le chiavi. Il maggiore alla vista di una casa d’abitazione divenne tutto pallido per la rabbia, si volse minaccioso a Dario dicendo: «Voi avete ingannato me, Dottor Walter, maggiore della S.S. germanica mi avete fatto dormire in terra mentre qui c’era un alloggio!». Ma Dario non si perse di coraggio disse che tra poco sarebbe arrivata la padrona e con lei avrebbe ragionato, lui non c’entrava, dato che l’alloggio era della signora e lei ne disponeva. Difatti poco dopo arrivammo la mamma ed io per tenere un pò di compagnia a Dario nel giorno della sua festa (la mamma veniva giù quasi tutti i giorni facendo i quattordici chilometri a piedi). Il maggiore chiese subito molto irritato spiegazioni alla mamma e lei molto gentilmente gli disse che fino a due giorni prima aveva abitato là e quindi lui non poteva venire ma che ora era ben felice di mettere l’appartamento a sua disposizione. Egli portò su anche tutti i suoi soldati e vi si installarono da padroni.

E così quel giorno che doveva essere tanto bello, in cui diventava maggiorenne, Dario dovette assistere allo sfondamento del pavimento per mettere alla finestra delle longarine per poter tirare su i macchinari che poi caricarono su di un camion della S.S. e quelle facce da galera tutti vestiti di nero con la morte nel berretto se li portarono via.

Ma Dario arrischiava giornalmente la vita tentando di sottrarre più roba che poteva al maggiore e quell’uomo se lo avesse preso lo avrebbe freddato sul posto. Tutti i giorni nel periodo che i tedeschi andavano a mangiare, Dario, Mattioli e Marino il distillatore portavano a nascondere delle damigiane di alcool buongusto a Pilarciano; sotto quel sole cocente facevano delle terribili sfacchinate sempre con la paura di essere scoperti e difatti il maggiore si doveva essere accorto di qualche cosa poichè in seguito, nel periodo di pranzo, lasciava un soldato di guardia. Ma Dario non si perse di coraggio e continuò i suoi viaggi portando in salvo quanta più roba poté.

La macchina da scrivere faceva molta gola al signor maggiore e combinazione era stata nascosta momentaneamente proprio nell’ufficio del Modi, del quale il tedesco s’era impadronito. Un giorno Dario, servendosi di una chiave a lui rimasta, entrò nell’ufficio, prese la macchina e la avvolse in un sacco, ma quando stava per uscire trovò sulla porta uno dei tenenti che era con il suo maggiore che lo guardava in malo modo. Senza perdersi di coraggio e senza mostrare alcuna emozione Dario disse in tedesco accennando al sacco: «documenti interessanti per la fabbrica». E prima che l’altro avesse il tempo di rispondere se ne venne via con la macchina. Quello là non doveva aver capito di che si trattava perchè il maggiore chiedeva continuamente alla mamma come mai la S.A.I.M. [questo era il nome della Distilleria di Vicchio, N.d.C.] non avesse una macchina da scrivere e disse che se l’avesse trovata avrebbe saputo lui cosa fare; ma la macchina era già a Romignano.

Il maggiore se ne stava smontando i macchinari e a quanto pareva non aveva nessuna intenzione di rilasciarci alcun documento. Allora Dario un giorno lo ferma e gli dice che gli occorre una dichiarazione da mandare a Trieste comprovante che effettivamente i macchinari erano stati portati via dai germanici. Il maggiore col suo risolino odiosissimo rispose che non occorreva niente perché Dario avrebbe accompagnato i macchinari in Germania. Si rendeva più che mai necessario che Dario scomparisse per non farsi portare via ma comunque decise di rimanere fino agli ultimi giorni, ma voleva avere il certificato e quindi dopo due giorni tornò alla carica dicendo che glielo desse almeno per un giorno per farlo vedere alla padrona e ad un direttore venuto da Milano. A malincuore il maggiore gli diede il documento raccomandandosi però che glielo riportasse il giorno dopo perchè, dovendone fare una copia, non sapeva scrivere «società mugellana» per cui lo doveva copiare da là. La sera Dario lo copiò a mano e il giorno dopo mamma riportò al maggiore con un sorrisetto, annunciandogli che l’originale era partito per Trieste, la copia dicendo che «società mugellana» la poteva copiare benissimo da lì. Ed egli non poté dire nulla.

Intanto l’avanzata anglo-americana verso Firenze continuava con ritmo sempre crescente, Firenze era stata dichiarata «città libera» [tale la voce che allora circolava, N.d.C.] con assicurazione da ambo le parti che tutte le convenzioni internazionali sarebbero state rispettate.

A Firenze, dalle notizie che ci pervenivano, la vita continuava normale e calma, continuavano a funzionare tram, cine e caffè. In campagna invece la vita era diventata un inferno; si viveva nell’eterna paura dei tedeschi, delle loro ruberie, dei loro soprusi: tutte le ville erano state visitate e da tutte era stata asportata la migliore roba. Un giorno la mamma ed io eravamo in visita dalla signora Fragiacomo ed eravamo solo donne con i bambini poiché Fragiacomo e il tenente dei Carabinieri erano andati a Borgo (Antonini era già da quindici giorni a Firenze); si era tutte a chiacchierare in giardino quando arriva un camion pieno di soldati germanici i quali, puntandoci contro i mitra, si misero a perquisire la villa e il giardino dicendo che lì erano nascoste automobili e partigiani. Sfondarono a colpi di pala il garage e cercarono roba da portare via. La mamma e un’altra signora si misero a parlare con loro in tedesco dicendo che lì non era nascosto nulla, che, come vedevano, c’erano solamente donne con bambini, che l’unica macchina che c’era l’aveva il tenente dei Carabinieri che abitava là e che sarebbe tornato a momenti e che essendoci un carabiniere, naturalmente non si ospitavano partigiani. Ma intanto la nostra paura era che i partigiani arrivassero là davvero dato che venivano sempre e là erano, alla cappelletta, distante duecento metri dalla villa, a chiacchierare con una delle ragazze sfollate. Se fossero arrivati là sarebbe avvenuto uno scontro e noi certamente saremmo stati presi di mezzo e la villa bruciata come già era successo in altri posti. Visto che questi tedeschi non accennavano ad andarsene la mamma alla chetichella andò a mandare via i ribelli dicendo che c’erano i tedeschi in numero tre volte superiore al vero perché altrimenti quelli non se ne sarebbero andati. Finalmente dopo un pò arrivarono gli uomini e il tenente, mostrando i documenti, s’impose e disse che noi eravamo buona gente amica dei tedeschi e così riuscì a mandarli via. La mamma ed io allora andammo subito a casa che distava circa cinquecento metri dalla villa e qui trovammo un altro camion con tedeschi che requisivano maiali. Portarono via anche un vitello e nella notte tornarono e uccisero un maiale nella stalla di fronte a noi; grazie a Dio non entrarono in quella che c’era sotto di noi dove dormivano tre partigiani.

Fatti simili erano all’ordine del giorno e tutto il giorno gli apparecchi alleati bombardavano, mitragliavano e ispezionavano la zona.

Noi, dopo che Nives (9)  era andata a Trieste nel nostro alloggio, avevamo a Firenze a nostra disposizione il suo e quasi quasi eravamo propensi ad andare a Firenze che, ormai città libera, non veniva bombardata e dove non si sarebbe sentito passare la guerra. Ma dato che questo alloggio non era in centro ma nella zona industriale della città, cioè verso Rifredi, avevamo un pò di paura. Dario però non si doveva più far vedere dal maggiore che, imbestialito con lui per tutti gli ostruzionismi che aveva cercato di fargli, avrebbe finito per ammazzarlo o comunque alla meno peggio l’avrebbe portato in Germania.

Eravamo ancora indecisi tra Firenze e Monte Giovi quando successe un fatto che non ci fece più esitare.

A Padulivo (10) , sopra il Cistio, che dista tre chilometri da Romignano, dei tedeschi sequestrarono il cavallo di un partigiano ingiungendo alla donna che l’aveva in consegna di non dire nulla, ma quella, appena i tedeschi si furono allontanati, corse dai partigiani ad avvisarli; quelli scesero e avvenne uno scontro in cui rimase ucciso un tedesco e un altro ferito. Allora successe un putiferio: vennero su dieci tedeschi armati fino ai denti, andarono in tutte le case e tutti gli uomini che trovarono li portarono fuori e li fucilarono davanti alle case, fucilarono pure quella donna che aveva il cavallo ed un’altra. Di tutti gli uomini che fucilarono neppure uno era un partigiano; erano tutti vicchiesi che erano sfollati lassù per paura dei bombardamenti. Ne fucilarono venti; tra questi alcuni ne conoscevamo tra cui l’ingegnere del catasto e un meccanico che tante volte era anche venuto in fabbrica. Ma non sembrava loro di essersi abbastanza vendicati su degli innocenti; per cinque giorni non permisero che nessuno desse sepoltura a quei poveri morti. Andarono a Vicchio e dicendo che là tutti più o meno erano amici o parenti dei partigiani volevano ammazzare tutti gli uomini. Per fortuna il capitano comandante La Piazza di Vicchio, un austriaco affatto hitleriano e quindi un uomo ragionevole e a posto, mise fine a quella pazzia sanguinaria. Soccorse tutte le famiglie di quei poveri fucilati mettendosi a loro disposizione e dicendo con le lacrime agli occhi che così non doveva essere la guerra. Ma la S.S. non si quietò, prese tutti gli uomini e li portò a pillare, a fare trinceramenti, a spaccare pietre per dodici ore al giorno sotto quel sole cocente senza dar loro da mangiare. Tra questi c’era anche l’avvocato Cerchiai, podestà di Vicchio.

Era ormai impossibile rimanere da quelle parti tanto più che sembrava che i tedeschi avessero intenzione di fare una linea di resistenza su quelle montagne e difatti da tutte le parti c’erano le fortificazioni e la radio non faceva che parlare della famosa Linea dei Goti.

Così cominciò l’esodo dal Mugello.

Con tutti i mezzi la gente si avviò verso Firenze; i più vennero a piedi portandosi su di un carretto un pò di roba per poter vivere. Così fecero i Papucci, la più ricca famiglia di Vicchio, i Cerchiai, dottore e avvocato che portarono il carretto come due muli, mentre la moglie dell’avvocato che era prossima a partorire venne con la macchina del comandante austriaco.

Dato che questo comandante aveva un camion, la mamma pensò di andarglielo a chiedere per portare a Firenze un pò di roba. Sembrava un gioco d’azzardo e tutti eravamo sicuri di un rifiuto, invece questo maggiore era veramente una brava persona; quando la mamma gli ebbe raccontato che la S.S. ci aveva buttati fuori dalla fabbrica e che ora eravamo costretti a vivere come bestie, mentre avevamo un alloggio a Firenze lui si mise subito a nostra disposizione e ci diede il camion con autista e un soldato di scorta. Facemmo in fretta e furia i preparativi e il giorno 17 luglio partimmo per Firenze. Sul nostro camion c’erano pure il fratello e la sorella di Antonini con le loro famiglie.

E cominciò l’odissea del viaggio.

S’era fissato di partire alle sette di sera per evitare i bombardamenti e per arrivare a Firenze ancora con il chiaro, ma il camion a Romignano scivolò giù dalla scarpata e ci vollero due ore per tirarlo su. Io avevo quel giorno trentanove di febbre a causa di una forte dissenteria causatami dall’acqua del pozzo. Finalmente, dopo un sacco di complicazioni, alle nove e mezzo partimmo.

Prendemmo la strada di Polcanto per evitare i gendarmi di Trespiano; eravamo appollaiati sulle masserizie in cima al camion sempre col pericolo di cadere con i continui traballamenti. Giunti a metà strada di Polcanto c’imbattemmo in una colonna tedesca che prendeva tutta la strada e quindi ci fecero prendere la strada di Trespiano che noi avevamo tanto evitata; il giro che facemmo per arrivare sull’altra strada durò due ore. Ogni tanto i tedeschi ci fermavano e noi sempre avevamo paura che ci portassero via qualcosa, dato che sul camion viaggiava tanta gente, mentre il permesso non era che per la signora Cullino con due figli. Finalmente, come Dio volle, arrivammo al posto di blocco di Trespiano. Qui i gendarmi ci fermarono per quasi un’ora (era più di mezzanotte) mentre gli apparecchi americani ci volavano sulla testa a bassissima quota. I gendarmi, dopo essersi molto informati sul contenuto del camion e aver fatto un sacco di domande sul fatto che sul camion c’era tanta gente, ci diedero un permesso di tre ore per arrivare a Firenze, scaricare la roba e il camion, tornare indietro con Dario e Giulio Antonini che volevano tornare su, Giulio per prendere ancora roba, Dario perchè aveva deciso di accompagnarci e poi di ritornare su per rimanervi fino all’ultimo e quindi venire a Firenze a piedi.

Giunti in città, dato che la roba degli Antonini era ammonticchiata sopra la nostra, decidemmo di scaricare prima loro e difatti andammo in Via Ricasoli dove dovevano abitare. Poiché erano ormai le due e mezzo e al buio noi temevamo di non trovare la strada di casa, Felli, un fiorentino cognato di Antonini, si offerse di accompagnarci. Almeno non l’avesse fatto! Ci condusse per una strada che ad un dato punto risultava sbarrata dai cavalli di frisia germanici ed egli bravamente salta giù dal camion, li butta in terra e quindi il camion con grande fracasso ci passa sopra. Immediatamente fummo fermati da una ventina di gendarmi, ci chiesero i documenti, volevano sapere perché avevamo buttato giù lo sbarramento e come mai noi eravamo in Firenze su di un camion germanico alle due e mezzo di notte mentre il coprifuoco era per le nove. Ci accorgemmo subito di essere capitati male, difatti eravamo proprio davanti al comando della Feldgendarmeria, ma speravamo che, mostrando i documenti del capitano di Vicchio che su quel camion eravamo a posto, e quelli del posto di blocco per il coprifuoco, ci avrebbero lasciato andare. Grazie al cielo ormai eravamo in regola dato che tutti gli altri erano scesi. Avevamo ad ogni modo un pò di paura, ma ad un certo punto il comandante disse qualche cosa al nostro camionista e cominciammo ad andare avanti. Stavamo già tirando un sospiro di sollievo quando il camion gira ed entra in un antro buio che sembrava non avere mai fine. Tutti e tre ci sentimmo mancare il cuore, eravamo prigionieri dei tedeschi che adesso ci avrebbero portato via quella poca roba che ancora avevamo e quelle provviste che ci avrebbero consentito di vivere qualche tempo a Firenze. Il camion avanzava lentissimo al buio e noi non ci rendavamo conto di dove si era; confesso che quello fu uno dei più brutti momenti della mia vita; mi sentivo invasa da un grande tremito e cominciai a piangere come una bambina piccola.

Quando finalmente il camion si fermò, dal davanti, dove era seduta, venne fuori la mamma anche lei piangendo; io allora persi tutte le speranze.

Venne un poliziotto e ci disse di andare con lui al comando da dove la mattina dopo, chiarite le cose, avremmo potuto tornare sul camion. Ma ormai si conosceva la parola dei tedeschi e si conosceva la loro ladroneria: se il camion rimaneva senza custodia la mattina non si sarebbe trovato nulla. Io allora mi misi a gridare che non sarei andata via a nessun costo, che sarei rimasta al buio ma che neanche con la forza mi avrebbero portata via. Il tedesco mi fece luce sul viso con la pila e, forse impietosito dal mio stato e dalla mia febbre, ci disse che potevamo rimanere là e se ne andò lasciandoci al buio. Noi risalimmo sul camion un poco sollevati e ci accomodammo tra i pacchi. Eravamo tanto impressionati che sentendo un continuo rumore di catene credevamo che ci fossero delle persone in arresto. Ogni momento si accendeva una pila e qualche soldato veniva a guardarci e Dario continuamente mi copriva con l’impermeabile poiché oramai avevamo sentito anche troppo di ciò che facevano alle ragazze. Come Dio volle venne il mattino e la luce e ci accorgemmo di essere in un misero garage pieno zeppo di macchine di gendarmi. Quel rumore di catene non era dato altro che da un ciuchino che dovevano aver sequestrato con tutto il barroccino. Ora si poteva anche ridere della paura che ci aveva fatto quel luogo e quel ciuchino, ma la notte era stata infernale.

Ora però bisognava uscire di là in tutte le maniere.

Cominciarono a venire ufficiali e soldati, ma nessuno si curava di noi, prendevano le loro macchine e via. Allora la mamma si decise a parlare lei e tutti gli ufficiali che venivano li fermava e diceva loro che noi eravamo in regola e che ci lasciassero andare a casa poiché io avevo tanta febbre. Tutti ci ascoltavano, ci dicevano sì, poi partivano con l’automobile e non li vedevamo più. Questo durò fino alle undici circa finché la mamma, stanca, chiese chi fosse il comandante e si fece portare da lui.

Era questo comandante un tipo come quello che ci aveva sequestrata la fabbrica, freddo, impassibile, dalla faccia cattiva. Ascoltò tutto ciò che la mamma gli disse, poi stette e rimirare per una mezz’ora i nostri documenti poi, senza dire nulla, si mise a lavorare avanti. Sicché la mamma dopo un pò tornò a parlare e lui fece lo stesso scherzo e finalmente cominciò a farle un sacco di domande in tedesco da cui capimmo che mezz’ora prima che il nostro camion buttasse giù gli sbarramenti era stato fatto un attentato contro quel comando. Ci sentimmo cadere le braccia perché la cosa era molto grave, già molti ostaggi erano stati fucilati nella notte e quel maggiore non voleva capire che noi ci trovavamo da quelle parti per pura combinazione. Il più grave di tutto era che avevamo buttato giù lo sbarramento. Finalmente, dopo lunghe spiegazioni, dopo lunghe meditazioni davanti alla carta geografica parve convincersi che noi non eravamo che dei poveri profughi ma disse che se noi eravamo in regola non lo era il capitano che aveva dato il camion militare per trasportare civili e che quindi lui sequestrava il camion. La mamma allora gli disse che lei di quello non aveva colpa, che ci lasciasse andare a casa e che poi del camion facesse ciò che gli pareva. Era quasi convinto, quando arriva un soldato dal garage a riferirgli qualcosa. Egli ascolta, poi si volta alla mamma e gli dice che mentre noi eravamo là dentro era stato fatto un furto di motori di automobili e che noi saremmo andati a casa solamente quando avremmo detto il nome dell’uomo con il mantello nero che aveva rubato. Noi eravamo troppo affranti la notte per aver visto nessuno e la mamma glielo disse.

Erano tante le complicazioni che pensandoci oggi vien quasi da ridere ma quel giorno sembrava che non ce la saremmo cavata mai più.

Finalmente, dopo aver indugiato e meditato per un’altra eternità, si decise a venire a vedere il camion e come volle il cielo ci diede il permesso di andare a casa. Il camion poi doveva tornare lì; e ci mandò dietro uno dei suoi gendarmi. Arrivati in Via Romagnosi scaricarono tutto per terra perché il gendarme aveva fretta e quando furono per partire noi ci apprestammo a salutarli ma il gendarme disse che il giovane Dario doveva tornare lì per ordine del maggiore. Ci sentimmo subito agghiacciare mamma ed io vedendo il camion che si portava via Dario; era giusto quello uno dei giorni di grandi rastrellamenti e poi laggiù c’era il fatto dell’attentato e mamma aveva visto in una stanza già una ventina di giovani presi.

Piangendo e disperandoci portammo su da sole i nostri bagagli e poi la mamma di corsa ritornò giù mentre io rimanevo sola in preda ad una grande disperazione. Per tre ore nessuno venne a casa mentre io me ne stavo alla finestra ad aspettare e finalmente vidi arrivare Dario con mamma.

 

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Il giorno martedì 18 luglio 1944 é dunque il giorno in cui mia mamma giunse a Firenze.

Nei mesi successivi, tramite comuni amici, conobbe mio padre, Oroveso Marcori, con il quale si sposò il giorno 10 dicembre 1949 (dopo un periodo di fidanzamento da lei trascorso a Trani dove si era ricongiunta tutta la sua famiglia).

In tale data si trasferì definitivamente a Firenze, città nella quale ha vissuto ininterrottamente per oltre 60 anni, amandola profondamente come la propria città di adozione, pur mantenendo sempre molto saldi i suoi legami affettivi con la città natale e con la cultura mitteleuropea.

A Firenze ha intrecciato numerose e solide amicizie, intessuto rapporti culturali e sociali, dedicandosi ad importanti iniziative di concreta solidarietà e di aiuto ai bisognosi.

Per molti anni catechista presso la Parrocchia di San Jacopino, ha trasmesso a diverse generazioni di ragazzi la sua fede pura e profonda, insegnando loro i principi della nostra religione con entusiasmo e passione.

Ha dedicato tanto del suo tempo all’assistenza agli ammalati presso gli ospedali fiorentini quale volontaria dell’AVO (Associazione Volontari Ospedalieri), distinguendosi sempre per le sue grandi doti di umanità e di sincero spirito caritatevole.

In seguito, quando le risorse fisiche non le hanno più consentito di effettuare questo tipo di servizio, ha prestato la sua voce all’Associazione del Libro Parlato Lions registrando testi universitari per studenti non vedenti, dando così loro un fondamentale aiuto nel compimento degli studi.

È scomparsa nella città toscana il 1° aprile 2014.

A lei è intestato il «Premio Firenze – Ada Cullino Marcori», teso a premiare annualmente, il giorno 1° aprile, un giovane laureato in tematiche relative alla città di Firenze, al suo passato, presente e futuro, oppure all’autore di un saggio inerente la suddetta tematica. Tale premio è stato istituito dalla famiglia Marcori in collaborazione con la Fondazione Spadolini Nuova Antologia.

Presso la stessa Fondazione è esposta in modo permanente la «Collezione Firenze – Ada Cullino Marcori», un fondo di 25 opere di arti figurative su Firenze (dipinti, incisioni, stampe antiche) che ho acquisito e donato alla Fondazione per rendere omaggio alla memoria della mia splendida mamma.


R. M.

 

 

 

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1 La liberazione di  Roma fu uno degli episodi principali della Campagna d’Italia della Seconda guerra mondiale. I giorni 4 e 5 giugno 1944 le truppe americane, comandate dal generale Mark Wayne Clark, riuscirono a superare le ultime difese dell’esercito tedesco ed entrarono nella città senza incontrare resistenza, accolte con entusiasmo della popolazione. Il feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante della Wehrmacht in Italia, preferì ripiegare verso nord attestandosi sulla così chiamata «Linea Gotica».

2 La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata istituita in Italia dal governo fascista repubblicano l’8 dicembre 1943 «con compiti di polizia interna e militare». La GNR, destinata teoricamente ai compiti propri dei Carabinieri (ordine pubblico e controllo del territorio), in realtà prese parte soprattutto alla lotta contro le forze partigiane della Resistenza italiana.

3 Si fa riferimento all’incursione partigiana compiuta a Vicchio la notte del 6 marzo 1944 dalle formazioni «Faliero Pucci» e «Checcucci» e la successiva fucilazione di quattro militi della GNR e di un carabiniere. La reazione della GNR fu immediata: il 12 marzo reparti di militi raggiunsero il Mugello in treno da Firenze, ed iniziarono subito i rastrellamenti nelle zone del Monte Giovi, di Gattaia e di Fornello.

4 Definizione talora usata per indicare i partigiani, in quanto si ribellavano al regime di Salò. Più avanti i partigiani vengono chiamati «patrioti».

5 La triestina Stock S.p.A., proprietaria di alcuni stabilimenti in Toscana, fra i quali la distilleria di Vicchio, apparteneva ad una famiglia ebraica, alcuni componenti della quale, i signori Carlo e Vera Wagner, per sfuggire alle persecuzioni razziali, si erano trasferiti nel 1943 da Trieste nel Mugello, vicino a Vicchio, abitando nella villa di Romignano che avevano acquistato assieme a due famiglie di costruttori di origine triestina, gli Antonini ed i Fragiacomo, che vengono più avanti ricordati. Lo stretto legame di affetto ed amicizia fra la famiglia Wagner e la famiglia Cullino è ben ricordato da Gianna, la secondogenita di Carlo e Vera, nata proprio a Firenze in una clinica di suore, «La Pratellina». «Vera avrebbe dovuto rimanervi per una decina di giorni, ma a quel punto Carlo informò la direttrice della loro religione ed allora fu loro raccomandato di allontanarsi appena possibile e puerpera e neonata raggiunsero così al più presto Vicchio. Quivi la distilleria Stock era diretta da Dario Cullino, figlio di quella signora Maria che spesso s’incontrava con Vera a Firenze da Doney e nipote del fedele dott. Guido Cullino, vero protettore della famiglia in questi anni travagliati. Tutta la sua famiglia era molto vicina ai Wagner». (T. CATALAN – F. COSTANTINIDES – G. WAGNER DE POLO SAIBANTI, Carlo e Vera Wagner – da Spalato e Vienna a Trieste e oltre: una storia, Alinari Sole 24 Ore, 2008, p.166).

6 L’autrice fa qui riferimento al signor Mattioli, che era il capofabbrica dello stabilimento di Vicchio e a sua moglie Rosa. Più avanti ricorderà altri collaboratori del fratello, il signor Dreoni ed il signor Modi.

7 Alcool buon gusto è l’alcool etilico puro a 95° usato nella preparazione casalinga di liquori e amari.

8 I semi che si trovano negli acini di uva, ricchi di olio.

9 Nives è una cugina dell’autrice la quale, sposata con l’oculista professor Ravasini, viveva in quegli anni a Firenze, al numero 11 di via Romagnosi, nella zona Statuto/Rifredi. Rientrata temporaneamente a Trieste, si era stabilita nella casa dei Cullino lasciando loro la disponibilità del proprio appartamento fiorentino.

10 Si fa qui riferimento all’eccidio di Padulivo del 10 luglio 1944. La descrizione non è forse del tutto esatta, in quanto le notizie erano arrivate in paese passando di bocca in bocca, senza precisi e documentati dettagli.